Quando ho aperto gli occhi il primo giorno ho sentito delle urla strane. Ho visto la sua schiena respirare serenamente, mentre io ho pensato "Ecco, é scoppiata la guerra. Ora qualcuno entra dalla finestra con un kalasnicov, ci grida infedeli, non siete neanche sposati e ci ammazza". Poi ho capito che era il muezzin che richiamava alla preghiera, non la jihad. Il primo giorno abbiamo camminato come zombie. Stanchi, col jet lag sulle spalle e lo straniamento. Si, quando non capisci dove sei, cosa stai facendo, dove vai. Camminavamo e ci meravigliavamo. Io insistevo che sembrava tutto cosí vicino a noi, sembrava un po' di stare a Roma, dicevo. Lui scuoteva la testa e mi dava dell'ottusa. Devi accettare l'altro, non puoi ridurre tutto a Roma. Roma non é caput mundi. Poi c'é stata la scoperta. Il sapore unico di quel thé, preso sul Bosforo. La sera, la cena su una terrazza come se fosse estate. E i sapori unici. L'agnello che si fondeva in bocca, anche nella mia, che normalmente si rifiuta di mangiarlo. I sapori veri delle verdure, che sapevano di verdure e non di acqua.
Poi l'emozione di Santa Sofia. Dei mosaici cristiani in una moschea. Lo sfarzo dei palazzi del sultano. I diversi Harem. Il sole sulla pelle, leggero, ma caldo. La basilica cisterna col suo odore di umido e le carpe, pesci immesni, che nuotano con i loro baffoni. Le vetrine di dolci, ripieni di mile e di mandorle. Un traghetto per andare in un altro continente, sciuscià che ti pregano di lucidarti le scarpe, domande imbarazzanti (ma voi siete sposati?) e il bonheur di scoprire insieme un nuovo mondo.
Tout ça est Istanbul.
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